Prima che il Chievo Verona stupì l’Italia intera nel 2001, ci fu un’altra squadra che da neo promossa fece innamorare i tifosi di molte squadre del campionato di Serie A. Parlo dell’Atalanta 2000/01, una squadra piena di talento che fu capace di chiudere il girone d’andata al quarto posto con 29 punti, lasciandosi alle spalle, fra le altre, le due milanesi, Milan a -2 ed Inter a -5.
Altro dettaglio, si trattava di una squadra con l’età media più bassa di tutto il campionato, composta quasi interamente da giovani italiani: Pelizzoli, i fratelli Zenoni, Ventola, Doni, Zauri, Siviglia, Morfeo, Natali, Donati a cui fu affiancata l’esperienza di alcuni veterani come Carrera, Paganin e Ganz.
A fine stagione l’Atalanta terminò al settimo posto, superata proprio dalle due milanesi, e l’incredibile cavalcata dei bergamaschi ebbe come naturale conseguenza la costante attenzione dei grandi club sui suoi giovani talenti.
Massimo Donati, fu acquistato dal Milan, con il quale non riuscì a imporsi nonostante le 17 presenze collezionate in campionato con i rossoneri. Parma, Torino, Sampdoria, Messina e nuovamente Atalanta rappresentano i successivi passaggi, sempre in prestito, della sua carriera, prima di venire ceduto – questa volta a titolo definitivo – agli scozzesi del Celtic, con i quali ebbe l’opportunità di tornare ai massimi livelli vincendo campionato e coppa di Scozia, oltre a calcare, segnando due reti contro Shakhtar Donetsk e Arsenal, il prestigioso palcoscenico della Champions League.
Dopo un biennio oltremanica torna in Italia, dove giocherà per Bari, Palermo e Verona prima di chiudere la carriera nuovamente in Scozia, questa volta con le maglie di Hamilton e Saint Mirren ed iniziare – con le giovanili dell’Hamilton – la carriera da allenatore.
Oggi Massimo Donati è alla guida del Legnago Salus – squadra veneta che ha riportato in LegaPro al primo tentativo dopo la retrocessione subita dal club nell’anno precedente – e ha iniziato una nuova scalata verso il calcio “dei grandi”, questa volta nelle vesti di allenatore.
Ho parlato con mister Donati una mattina prima di un suo allenamento. Era mattino presto, ma con la testa era già al campo di allenamento. Nonostante questo si è messo a mia disposizione per quasi un’ora di chiacchierata.
Mister, come si è sviluppata la tua idea di calcio e quali sono state le influenze che hai ricevuto nel tuo percorso di formazione?
L’idea di potermi approcciare in futuro al ruolo di allenatore è maturata durante la mia esperienza a Bari con mister Ventura. In quegli anni trascorsi insieme raggiunsi grazie a lui una maturità ed una consapevolezza di ciò che dovevo fare in campo, con la palla e senza, per cui avrei potuto scendere in campo bendato. Sapevo tutto anche degli avversari, la preparazione delle partite veniva svolta in maniera fantastica e rimasi affascinato da quel modo di lavorare al punto che iniziai a pensare in maniera concreta ad un futuro da allenatore. Avevo 28 anni ed ero maturo al punto da iniziare ad immaginare a ciò che mi sarebbe piaciuto insegnare a miei ipotetici giocatori, dal come stare in campo a come interpretare una partita.
Un’altra mia grande fortuna è stata quella di incontrare Gasperini a Palermo. Principi simili a quelli di Ventura ma un’idea di calcio differente. Con lui ho imparato il valore e l’importanza dell’intensità, che nel calcio moderno soprattutto è diventata un elemento imprescindibile.
Queste sono senza dubbio le idee che hanno marcato maggiormente la mia attuale idea come allenatore.
Pongo estrema attenzione, in fase di preparazione degli allenamenti, al non avere troppe pause e al fatto che tutti i giocatori sappiano esattamente cosa chiedo a ciascuno di loro in ogni fase del gioco.
Chiaramente il calcio moderno si è evoluto e non si può ridurre solamente a questo. Bisogna pensare alla gestione e ad altri molti aspetti, però l’idea di base del mio calcio si può sintetizzare con questo binomio.
Nel raggiungere questo livello di conoscenza da parte dei giocatori è più importante il lavoro di campo o la parte “invisibile” relativa alla comunicazione dell’allenatore?
Sono entrambe fondamentali. E’ normale che quando si va a preparare una partita o quando vuoi insegnare qualcosa di nuovo ai tuoi giocatori il lavoro di campo ha una grande importanza, ma lo è altrettanto il fatto che bisogna essere in grado di trasmettere idee, pensieri, concetti ed essere il più chiaro possibile.
I giocatori non devono avere mai dubbi sui pensieri dell'allenatore. Devono essere certi che creda fermamente in ciò che dice.
Il risultato, poi, è una parte importante di questo processo. Quando lavori per raggiungere un determinato obiettivo e ottieni risultati diventa tutto più semplice. Le difficoltà si palesano nel momento in cui le cose non vanno come vorresti che andassero, ma ritengo che anche questi momenti siano una parte integrante del processo. L’errore fa parte del gioco, anzi io voglio che i miei ragazzi siano in grado di poter sbagliare.
Per me l'errore rappresenta l'orientamento del lavoro futuro.
Ciò su cui non transigo mai è la mancanza di mentalità. Voglio che i miei giocatori abbiano ambizione di arrivare in alto e per questo non accetto chi si risparmia.
Parlando di principi di gioco, cosa hai fatto tuo dalle esperienze con Ventura e Gasperini?
Nel calcio attuale ormai parlare di costruzione dal basso in regime di superiorità numerica è diventato molto comune, ma con Ventura lo facevamo già dodici anni fa, cercando di creare costanti micro situazioni di 2 contro 1 che ci permettevano di risalire il campo partendo dal portiere. Questo è un aspetto che sicuramente mi porto dietro, ma bisogna avere l’intelligenza di sapere che non sempre si può fare tutto allo stesso modo. Bisogna sempre avere coscienza del contesto in cui si lavora, capire il tipo di squadra che si ha a disposizione, conoscere le caratteristiche dei calciatori…
Non sono un integralista in questo ma cerco sempre di comprendere quali adattamenti devo essere in grado di mettere in pratica per applicare gli stessi principi e arrivare all’obiettivo che, volenti o nolenti, è uguale per tutti gli allenatori: ottenere risultato.
Quando arrivi a Legnago, una volta compreso il materiale tecnico e umano a disposizione, quali principi hai cercato di portare?
Ho una squadra molto giovane e per questo uno dei primi aspetti di cui mi sono preso cura è quello mentale. Come ti dicevo l’avere fame, ambizione, è un concetto che ho cercato di trasmettere fin dai primi giorni.
Molti giocatori della nazionale italiana campione del Mondo o, più recentemente, campione d’Europa, hanno avuto un passato in LegaPro o addirittura nei dilettanti, e per questo i miei calciatori hanno il dovere di credere di poter arrivare in alto attraverso il lavoro. Io ho avuto un grande esempio nella mia vita calcistica: Gennaro Gattuso. Non grande fisico, non grande tecnica, ma una mentalità pazzesca che gli ha permesso di giocare da protagonista in una squadra che ha vinto tutto nel mondo.
Dal punto di vista tattico, abbiamo dovuto lavorare molto fin da subito perchè la squadra era stata rifondata dall’anno prima, per cui non avevamo nessuna base da cui partire. Abbiamo iniziato con un sistema di gioco, il 3-5-2, ma dopo un buon inizio siamo andati incontro ad un periodo più complicato e in quel momento abbiamo deciso di cambiare l’occupazione degli spazi in campo, mantenendo però invariati i principi di gioco. Abbiamo sistemato ciò che non andava e il nostro percorso è migliorato.
Quanto è difficile per te arrivare a Legnago, una piazza appena retrocessa, e riuscire a trasmettere la mentalità di cui mi hai parlato?
Bisogna sempre trasmettere ciò che si ha dentro e io ho cercato fin da subito di trasmettere loro la stessa voglia che ho di arrivare in alto.
Si dice che una squadra è l’espressione del proprio allenatore. Io credo e voglio che sia così. Penso che se non lo fosse sarebbe un problema.
Nel caso specifico di Legnago, al mio arrivo la squadra è stata rifondata quasi completamente e questo mi ha aiutato a ripartire da zero, senza subire eccessivamente le scorie della retrocessione.
Avendo avuto una carriera da calciatore a livelli molto alti, hai incontrato difficoltà nel misurarti da allenatore in un contesto non professionistico come quello della Serie D?
Non per presunzione ovviamente, ma avendo giocato a livelli abbastanza alti non posso pensare di riprodurre le stesse cose che facevo quando mi allenavo o pretendere dai miei giocatori che facciano le stesse cose che facevamo in serie A o in Scottish Premiership. Gli imput e le idee invece sono assolutamente identici.
Per questo non è stato particolarmente difficile per me. Ti ripeto, come ti ho detto anche in precedenza, un aspetto secondo me importante è quello di riuscire ad equilibrare come allenatore la tua richiesta alle capacità dei giocatori: se i miei giocatori commettono un errore tecnico in più rispetto a quello a cui io sono stato abituato a vedere nel mio passato da calciatore, non mi posso nè devo arrabbiare. E’ come si sbaglia la cosa importante.
Quando abbiamo attraversato il momento di difficoltà di cui ti accennavo non abbiamo fatto altro che continuare a lavorare, spingendo e rimarcando ancor di più i concetti che ritenevo importanti. Lo abbiamo fatto fino a che non sono diventati una parte integrante di noi stessi che ci ha aiutato a superare le difficoltà ed andare avanti.
Uno degli aspetti tangibili di ciò di cui mi parli penso che si rifletta sul dato dei vostri gol subiti, avete una delle difese migliori di tutti i gironi della Serie D. In un calcio moderno che sta andando sempre più verso un cambio continuo da marcatura a uomo a marcatura a zona – con difensori che devono essere in grado di “switchare” tipo di marcatura all’interno anche di una singola azione – tu che tipo di approccio hai?
Un principio per me importantissimo della fase difensiva è che in prossimità della porta si deve essere in grado di marcare a uomo. La maggior parte delle reti avviene dentro l’area di rigore pertanto è fondamentale che i miei difensori sappiano marcare bene e proteggere gli ultimi 16 – 20 metri.
Più che uomo o zona io credo che un aspetto fondamentale sia quello relativo al posizionamento del corpo. Vedo le partite di Serie A o di Serie B e molti gol vengono subito per errori dovuti a questo aspetto. E’ un fatto di attenzione, di dettagli. Mezza diagonale in più o in meno cambia un gol subito o un gol salvato; un gol subito cambia un risultato; un risultato cambia una partita; una partita può cambiare una stagione. Per questo lavoro molto sulla linea e sugli aspetti individuali della linea difensiva, ma credo fermamente che più ci si avvicina alla porta più si debba avere un orientamento sull’uomo. La palla in porta da sola non ci entra, qualcuno la deve buttare dentro.
C’è qualche aspetto della marcatura individuale su cui non transigi o che ti fa arrabbiare più di altri quando si verifica?
Non voglio che il mio difensore su palla opposta possa subire tagli in avanti. Accetto che lo possa prendere con un taglio alle spalle e un cambio gioco perfetto, ma davanti non lo accetto.
Chiaramente poi ci sono moltissimi altri aspetti e relativi comportamenti della fase difensiva individuale, con palla lontana, palla vicina, coperta, scoperta…
Riesci ad avere questa cura del dettaglio individuale anche all’interno di un contesto molto più caotico ed emotivamente differente come quello della partita?
Credo che in Serie D sia più facile farlo, perchè non hai moltissima gente allo stadio ed è più semplice farsi sentire dai giocatori in campo. Per questo adesso per me è molto più semplice curare certe situazioni in maniera immediata, come le situazioni di difesa preventiva per esempio.
La categoria in cui stai lavorando attualmente è caratterizzata dall’obbligo di schierare un determinato numero di giovani in campo. Un tema piuttosto ricorrente nel calcio attuale è quello secondo cui i giovani di oggi avrebbero lacune importanti, per lo più tecniche, rispetto ai giocatori del passato. E’ un qualcosa che condividi o percepisci?
Non credo sia un fatto di lacune, su quelle si lavora e si colmano. Io sono molto contento di lavorare con una squadra giovane perchè, pur mancando di esperienza, vanno forte e hanno voglia di imparare. Nessuno dei miei “under” ha mai avuto un atteggiamento presuntuoso, si sono messi subito al servizio della squadra, lavorando e cercando di imparare il più possibile.
E’ normale poi che con i ragazzi giovani bisogna saper parlare. L’errore di un ragazzo giovane deve essere gestito da parte mia in maniera diversa rispetto a quella di un giocatore maturo. Non nel messaggio, ma nelle modalità di trasferimento.
Quanto è importante per te l’aspetto relazionale con i tuoi giocatori?
Il rapporto che hai con i giocatori è fondamentale.
A mio parere non bisogna essere nè troppo amico, nè troppo distaccato, ma bisogna trovare il corretto equilibrio e i giusti compromessi, tenendo presente che ogni giocatore è diverso dall’altro. Da allenatore devi essere bravo a trovare la chiave d’accesso per ognuno di loro.
Il fatto che ogni domenica qualcuno va in panchina ed altri in tribuna è una difficoltà in più.
Come sei solito comportarti con loro?
Sono quelli a cui parlo di più e do più attenzione. Chi gioca regolarmente o quasi non ha bisogno di molto parole solitamente. Chi invece fatica a trovare un posto in squadra ha maggiore bisogno di un gesto d’affetto e di sentire che l’allenatore crede in lui.
Quest’anno ho utilizzato 31 giocatori. Voglio che siano tutti sul pezzo e questo perchè nell’arco di una stagione c’è sempre bisogno di tutti. Quella che sembra una frase fatta in realtà è una verità assoluta: se a metà campionato, per vicissitudini varie, io dovessi aver bisogno di schierare un giocatore che fino a quel momento non ha mai giocato, devo essere stato in grado di mantenerlo vivo fino a quel momento, altrimenti io quella partita non lo avrò. E quella partita, magari, potrebbe risultare – a priori o a posteriori – quella decisiva del campionato.
A noi è capitato. Un mio giocatore, un ragazzo fuoriquota del 2005 che avrà fatto 50 minuti in tutto il campionato, in una partita in cui è stato schierato ha segnato il gol della vittoria all’ultima minuto. A conti fatti quella rete è risultata decisiva per il campionato.
Che soluzioni trovi, nella pratica, per mantenere vivi i giocatori con meno minutaggio degli altri?
Richiamandoli e coinvolgendoli costantemente durante gli allenamenti e avendo attenzioni nei loro confronti fuori dal campo. La parola è fondamentale, ed è fondamentale il rinforzo positivo di ciò che fanno.
Quando loro, pur sapendo di non giocare, vanno forte in allenamento io devo farglielo notare. Perchè sono felice e perchè allenandosi bene fanno allenare bene tutto il resto della squadra.
Quanto è stato importante nel tuo processo formativo fare esperienza come vice allenatore?
E’ stata sicuramente importante, anche per capire ciò per cui mi sento più adatto, che è quello di fare l’allenatore in prima e non il vice o il collaboratore.
Da collaboratore notavo che i giocatori erano solitamente più aperti con me piuttosto che con l’allenatore, con cui invece avevano più remore a comunicare. Da allenatore ho cercato di abbattere immediatamente questa barriera. Voglio che i miei giocatori abbiano un rapporto diretto con me. Chiaro, franco e onesto.
Da collaboratore ho osservato molto le reazioni dei giocatori alle richieste dell’allenatore e ho iniziato a modellare quelle che poi sono diventate le mie richieste pratiche in campo e il mio modo di comunicare.
Che rapporto hai con il tuo staff?
Ho un rapporto ottimo, mi fido ciecamente di loro e ci mancherebbe altro che non fosse così. A parte il preparatore atletico, che ho avuto all’Hellas, sono tutte persone della società che ho conosciuto una volta arrivato a Legnago e con la quale si è instaurato subito un legame importante. Hanno la stessa voglia che ho io di diventare grande e per me sono un supporto fondamentale perchè un allenatore da solo non riesce a far fronte a tutto.
Cerco di delegare il più possibile e di ascoltare molto. Allo stesso modo sono molto pretenzioso da loro, sia nel lavoro in campo che nell’espressione di ciò che pensano.
Un’ultima domanda mister: cosa hai messo, se hai messo qualcosa, dentro al tuo bagaglio da allenatore di ciò che hai vissuto durante i tuoi anni in Scozia?
Sicuramente la grande intensità, sia in partita che in allenamento. Li il tutto era a scapito della tattica, dove c’era molta meno attenzione. Io, appartenendo alla cultura italiana, cerco di abbinare le due cose, facendo sì attenzione all’intensità, ma cercando di non far mancare mai l’equilibrio tattico.